Il dono e la maledizione: Oro Bianco è l’epitome della Trap
Nella notte di venerdì 29 marzo Oro Bianco ha dato alla luce CAPOTAVOLA, il suo
primo e atteso album. Il disco si configura come il sequel del fortunato Oro Bianco
Tape, uscito sotto Indomabili, che lo portò lo scorso anno alla ribalta come
uno dei nomi più street del panorama milanese.
Come si configura al giorno d’oggi un esordio come quello di Oro Bianco?
Una premessa necessaria: in questo articolo si parlerà a più riprese di trap, dove per via
della grande confusione che tutt’ora regna intorno a questa nomea è necessario
chiarire che si fa riferimento alla più classica formula tanto vicina all’America,
nelle sue tinte più fosche e street.
Postulato ciò, per analizzare Capotavola è imperativo porsi un quesito: chi fa ancora trap così pregnante nel 2019 è folle o coraggioso? In un periodo storico per questo genere in Italia dove sembra ormai necessario virare su altri generi o crossover per restare a galla, continuare a rispettare gli stilemi di questa corrente è un rischio enorme per la propria carriera. Il prezzo da pagare per l’applicazione di quelle formule algoritmiche che hanno garantito il successo di nomi noti nel nostro panorama hanno ormai saturato l’orecchio dell’ascoltare, la cui principale reazione a un brano del genere è un semplicistico “Bello eh, però l’ho già sentito…” rischiando di gettare al vento tutto il proprio lavoro.
Il fascino di Oro Bianco e del suo lavoro è l’estrema assenza di compromessi. L’uomo delle strada racconta la realtà che lo circonda, e lo fa in maniera credibile e godibile. Proprio per via della ripetitività nel panorama musicale italiano dopo più di tre anni che il genere ha preso il largo, diventano oggetto di interesse le modalità e la verve con cui si tessono le trame dei propri pezzi. Bianco rappa di Hogan, soldi, centro e periferia, pischelli fottuti e vita ingenerosa nei loro confronti, ma lo fa con un piglio che ne garantisce risalto rispetto ai migliaia di “colleghi” che si possono trovare ogni giorno aprendo instagram o youtube.
CAPOTAVOLA è un affresco di strada dipinto da chi non racconta il mondo in cui vive per
convenienza ma per necessità, con un occhio cinematografico figlio della
tradizione più iconica della città che lo ha cresciuto. E infatti proprio qui sta il pregio
di questo album: quello su cui focalizzarsi non è ciò che viene raccontato, ma come. Gli
stilemi della musica di Oro Bianco sono quanto di più canonico si possa inserire nella
stesura di un disco trap alla maniera più classica, senza annacquamenti di sorta o strizzate
d’occhio ad altre formule. Eppure preservano il loro valore perchè la voce che le
racconta non viene filtrata ma porta con sè l’eco del marciapiede.
Il rapper è forte della consapevolezza di chi sa che il suo posto è
desiderato tanto quanto rischioso, di chi campa servendosi di un veleno medico, di chi
riporta le gesta senza glorificarne i rischi.
Ed anche l’approccio tecnico è degno di nota: la vicinanza al mondo Indomabili (tra i cui affiliati risultano Young Rame, Frank White e Guè Pequeno) ne affina e costruisce le abilità permettendo un approccio alla base di qualità. Basta premere play alla prima traccia, la title-track Capotavola, per venire colpiti da una raffica di flow in pieno stile MI: la tecnica viene messa al servizio del contenuto e non come mero sfoggio per sopprimerne le carenze. La varietà stilistica dell’autore permette all’ascoltatore di destreggiarsi bene tra una traccia e l’altra sebbene il tappeto sonoro (Prodotto in buona parte dai Pankees, ad eccezione di qualche traccia che porta la firma di Biggie Paul) non presenti particolari picchi o sussulti durante lo scorrimento nel progetto.
Perchè questo disco non dovrebbe funzionare dunque? Per scoprirlo non serve altro che girare la medaglia e scoprire che i difetti di Oro Bianco non sono altro che i doppelganger dei suoi pregi: CAPOTAVOLA è semplicemente troppo trap. La debolezza principale dell’album è costruita esattamente sulle stesse basi che lo ergono a un lavoro così massiccio e poderoso, forte della precisione con cui il rapper si destreggia nell’ABC della musica made in Atlanta.
È la massima espressione del paradosso di questa parentesi musicale, dove restare ancorati alle proprie radici rappresenta una scommessa troppo alta per essere vinta al 100%: Oro Bianco ha corso il rischio – con tutto ciò che ne comporta – portando alla luce un buon lavoro che tuttavia alla lunga rischia di stancare in fretta, soffocato da un mercato troppo colmo e da una spietata concorrenza in termini di quantità di materiale analogo. A questo si aggiunge la colpa dell’artista di essere incorso negli inevitabili e tipici episodi ridondanti nella stessa stesura del disco (Squadra e Turbo su tutti), anelli deboli di una catena che in più punti è prossima a spezzarsi.
Si poteva fare di più? Certamente sì, ma probabilmente non rispettando questa formula. Un risultato diverso sarebbe stato possibile portando verso altri lidi la propria opera e compiendo un salto nel vuoto che spesso comporta risultati ancor peggiori.
Da qui nasce l’immancabile Deja Vu tipico dei dischi partoriti da un’unica matrice di cui anche Capotavola in certi punti è vittima ed autore allo stesso tempo. La principale pecca di quest’album è essere uscito nel 2019, quando molti si sono abituati ad ascoltare certe specifiche sonorità e perso di conseguenza la capacità di discernere i lavori ispirati dalle fotocopie scimmiottate esterofile. Chi inquadrerà questo disco nella prima categoria rimarrà senza dubbio soddisfatto dalle capacità sviluppate da Oro Bianco in questo biennio; chi invece lo inscatolerà nella seconda avrà la sgradevole sensazione di trovarsi di fronte all’ennesimo disco trap.