Aletheia: dal Vangelo secondo Izi
“Non lo capisco. Non ho mai visto nessuno muoversi così su un campo“. Andre Agassi rievoca così nella sua autobiografia il primo incontro con un esordiente Rafael Nadal, in procinto di cominciare la propria scalata all’Olimpo del tennis. Nell’ormai distante 2015, parole analoghe venivano sussurrate dagli appassionati di rap italiano per commentare “Julian Ross“, il mixtape con cui un ancora implume Izi varcava per la prima volta la soglia della fama locale e cominciava ad imporre il proprio nome sull’intero territorio nazionale.
Quanto sopra valga a sgomberare subito il campo da un clamoroso equivoco: chi si è stupito di fronte all’innegabile qualità del suo ultimo album “Aletheia“, ha preso un granchio. Perlomeno da una prospettiva artistica infatti, quello di Izi è un successo annunciato. Per spiegarne il motivo però, dobbiamo prenderla alla larga. Seguiteci, ne varrà la pena.
Storicamente, nella filosofia religiosa dello Zen si contrappongono due scuole: quella meridionale dell'”Illuminazione Improvvisa” e quella settentrionale del “Risveglio Graduale“. La differenza tra le due è autoevidente. Seguendo la prima, uno studio veloce e discontinuo può condurre rapidamente alla pienezza spirituale, ma anche a perdersi in vicoli ciechi. Viceversa, la seconda può essere immaginata come un lungo e faticoso sentiero, che tuttavia non può che condurre chi lo percorre alla propria meta.
Ecco, nel rap italiano non mancano esempi di Illuminazione Improvvisa. È lo stesso ambiente culturale in cui il rap fermenta, dominato dalle logiche concitate dello show business, a richiedere che siano sfornati a ritmo continuo nuovi idoli, nuove meteore, nuovi fenomeni stagionali da dare in pasto ad un pubblico mai sazio della newest sensation.
Poco importa se gran parte di questi siano destinati a bruciarsi ai blocchi di partenza, e ben pochi tra gli spermatozoi lanciati in questa folle corsa riescano ad evolversi in una personalità artistica a tutto tondo. L’importante è che la ruota del mulino continui a girare, anche a dispetto dello stesso capitale umano che la foraggia.
Viceversa, sono ben pochi i seguaci del Risveglio Graduale. Forse l’esempio più popolare è quello di Marracash. Quello del Re di Barona è un profilo schivo. Come il rapper di Cogoleto è cresciuto nell’ombra di personaggi ben più estroversi ed esuberanti, eppure si è dimostrato in grado di scandire il proprio cammino secondo tappe via via più ambiziose, con dischi animati da concept di volta in volta maggiormente temerari , sorretti (anche nelle loro imperfezioni) dal dispiegarsi del talento interpretativo del loro autore.
E arriviamo al punto. Perché, con l’uscita di “Aletheia“, possiamo finalmente esclamarlo a voce alta. Come Marra stesso prima di noi, come Agassi con Nadal, riconosciamo in Izi la stessa impronta, la medesima appartenenza alla Scuola del Risveglio Graduale, e i risultati di una travagliata ricerca interiore durata quasi due anni sono ora sotto gli occhi di tutti.
“Aletheia” segna infatti un passo avanti rispetto a “Pizzicato“, e un ulteriore level up nella carriera di Diego.
Quello a cui assistiamo destreggiarsi sul tappeto sonoro del nuovo album è semplicemente il miglior Izi possibile nel presente, spogliato dell’ansia dell’esordio, libero di esprimere la propria arte al pieno del suo potenziale odierno.
Il principale elemento di novità di questo disco se comparato al suo predecessore è in effetti la maggior accessibilità che lo contraddistingue, rispetto al labirinto di immagini e suoni ordito in “Pizzicato“.
Non bisogna però incappare nell’errore di confondere immediatezza e banalizzazione. “Aletheia” non è certo meno complesso o convoluto, ma si distingue per uno studio più approfondito del modus tramite il quale raggiungere un numero quanto più ampio possibile di ascoltatori.
Non a caso prende il nome dall’esperienza dall’epifania e della rivelazione. Non a caso Izi lo ha definito la sua “Missione“. Non a caso il passaggio conclusivo del mito della caverna platonica (di cui “Aletheia” è in gran parte debitore) vede il filosofo, una volta liberatosi dalle proprie pastoie intellettuali, fare ritorno alla propria prigione per liberare quanti più possibile dei suoi compagni ancora in catene.
In questo senso, Izi proclama di voler prestare “voce a personaggi sconosciuti“: sono proprio quei singoli individui che compongono il suo pubblico e declinano in modi diversi l’appartenenza ad un’unica idea di Umanità.
A questo scopo, immergendosi nello studio di concetti filosofici e religiosi, il rapper amplia come mai prima il proprio arsenale simbolico: e se il simbolo secondo Moreàs è la porta per il disvelamento dei concetti della realtà, allora Izi indossa alla perfezione i panni dell’indagatore di ciò che ci circonda, un veggente rimbaudiano che adempie al proprio compito di illuminare la strada per coloro che vorranno seguirlo.
Libero dalle convenzioni (o per meglio dire, in missione per abbatterle), il pellegrino dell’anima si mette in moto per esplorare quanto di più recondito possa esserci, mettendo in dubbio persino la propria identità. Per giungere a scoprire chi sei devi cancellare ogni cosa di te stesso, questo ci suggerisce Izi.
Tra eterogeneità sonora e coerenza di fondo, nel corso del disco si snodano episodi di spessore in bilico tra i piani temporali di ieri e di oggi, dal sequel di “Volare” all’inconsueto esperimento di “Weekend“, passando per la riuscita collaborazione con il rookie Speranza e la nostalgica strofa di Sfera Ebbasta in 48H.
È tuttavia nei brani solisti che Izi è libero di perseguire fino in fondo il suo intento, dipingendo potenti affreschi ispirati al nebbioso passato a Cogoleto – con le giornate trascorse al campetto, le notti passate sui tavoli e la graduale consapevolezza della propria diversità – così come al suo turbolento presente, dove a fare da padrone non è affatto il benessere della vetta ma un pressante anelito di fuga. Scappare da sè stessi e da ciò che ci circonda, perchè il Male dentro non può essere in alcun modo esorcizzato dalla mondanità e dal lusso che accompagna la ribalta.
Il Figlio di Zena si muove perciò nella consapevolezza del rischio, conscio del fatto che in un mondo dove “chiunque ha un po’ di ragione subisce oppressione“, voler rivelare la verità agli spettatori può apparire come un gesto arrogante o vano. È risaputo, il pubblico ti detesta quando gli sveli il trucco, e voler condurre le persone oltre il velo di Maya è una scelta che fomenta la paura più che l’ammirazione. Eppure non dev’essere necessariamente così, e Diego intende farsi carico di questa missione salvifica, svestendo i panni del boss per vestire quelli del leader spirituale, del messia.
Se è però vero che nessuno è mai fuggito dalla prigione senza l’aiuto di coloro che l’hanno già fatto (come Izi ricorda citando gli scritti di Gurdjieff nella conclusiva “Zorba“), ecco la chiave di lettura che capovolge il senso dell’intero progetto: la nostra via di fuga è proprio Izi . Non è lui a dover scappare dalla prigione, siamo noi, e Diego è la chiave che può permettercelo, la luce che trascina fuori dalla grotta platonica. L’occhio della copertina non ci da uno sguardo dentro l’autore del disco, ma dentro noi stessi.
Perchè l’uomo è imperfetto, angosciato e perennemente insoddisfatto come Diego, sempre in cerca di una verità che continua a sfuggirli e lo rispedisce periodicamente nel dolore e nello sconforto.
Dicono infatti che lo Zen sia nato solo nel giorno in cui il Buddha, dopo anni e anni di meditazione e studio, abbia guardato un fiore e abbia sorriso, comprendendo non ci fosse nulla da capire, ma solo da osservare e sorridere.
Erano tempi remoti e più semplici, tempi in cui la verità insindacabile delle classifiche FIMI non aveva ancora rimpiazzato i lunghi dibattiti dottrinal,i e ad opere come “Aletheia” sarebbe stato garantito il giusto tempo di riflessione e assimilazione.
Non dovrebbe quindi stupire nessuno che al Siddharta del rap italiano sia passata la voglia di ridere e sia rimasta solo un gran voglia di urlare.
Articolo realizzato in collaborazione con Alberto Coletti